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Per Aspera Ad Veritatem n.2
Note minime in tema di segreto di stato

Aldo Maria SANDULLI




1. Sono da condividere, a mio avviso, entrambi i punti nodali della motivazione della sentenza della Corte n. 86 del 1977 sul segreto di Stato (1) .
Il primo - impiegando una tecnica giuridica comune (perché inerente alla logica elementare) alla giurisprudenza costituzionale (e non soltanto a quella costituzionale) di tutti i paesi - si basa sulla "scala" dei valori consacrati nella Costituzione. Tale tecnica è stata utilizzata con larghezza in tutta una serie di pronunciati della Corte, nei quali sono stati considerati, di volta in volta, "preminenti", rispetto ad altri valori - pur garantiti dalla costituzione (quali il diritto all'informazione, il diritto di sciopero, le libertà economiche, i patti lateranensi, ecc.) - i valori dell'ordine pubblico, della dignità umana, della vita e della sanità, della protezione delle categorie in posizione di inferiorità, e di altri "principi di base". La Corte ha ora appropriatamente impiegato questa tecnica per affermare la preminenza degli interessi della sicurezza esterna ed interna dello Stato-comunità (vale a dire della collettività nazionale unitariamente intesa), rispetto a quel pur fondamentale valore che, in uno Stato di diritto, è rappresentato da una funzione giurisdizionale che non sia condizionata se non dalla legge.
In via di principio uno Stato democratico non può accettare - e la nostra Costituzione ripudia - la regola della "ragion di Stato" (e comunque oggigiorno nessuna motivazione "politica" potrebbe sottrarre all'osservanza della legge e al sindacato giurisdizionale - come si riteneva sotto il vigore dell'art. 31 t.u. Cons. Stato - un atto della funzione amministrativa: né è più ammissibile una richiesta alla Corte dei conti di "registrazione con riserva" per ragioni "politiche"). Ma "l'interesse dello Stato-comunità alla propria integrità territoriale, alla propria indipendenza, e, al limite, alla stessa sua sopravvivenza" come "Repubblica democratica" - cioè l'interesse alla "sicurezza esterna ed interna dello Stato" (la Corte appropriatamente non fa differenza poiché non è consentito farne, e appropriatamente fa richiamo all'art. 126 Cost.) - non può, per ragion di cose, non esser considerato (come già era stato affermato nella sent. n. 82 del 1976) al di sopra di tutti gli altri. Tale interesse viene considerato, del resto, "preminente sugli altri" (come pure si leggeva nella sent. n. 82 del 1976) "in tutti gli ordinamenti statali, quale ne sia il regime politico".
Esso può dunque valere a giustificare, entro i limiti di "un ragionevole rapporto di mezzo a fine" - vale a dire entro quei rigorosi limiti in cui ciò sia strettamente indispensabile ai fini della tutela del preminente interesse anzidetto (quello della strumentalità è un motivo che torna abitualmente nella giurisprudenza costituzionale formatasi a proposito dei diversi segreti legittimati dal nostro ordinamento: v. l'accurata rassegna fattane da M. Rodriquez, Sicurezza dello Stato e pubblici segreti nella prospettiva dei rapporti fra poteri, in Riv. dir. proc. 1977, 74 ss.) -, certi affievolimenti degli stessi valori dello Stato di diritto, valori i quali, del resto, si imbattono, nel vigente ordinamento, in varie - se pur sporadiche - limitazioni, in corrispondenza di talune valide esigenze costituzionali (v. la mia nota Spunti problematici in tema di autonomia degli organi costituzionali e di giustizia domestica nei confronti del loro personale, in Giur. it. 1977, I, 1, 1836).
In ciò, risiede, in via di principio, il fondamento della legittimazione costituzionale del segreto politico-militare.

2. Il secondo punto nodale della motivazione della Corte sta nel riconoscimento al Governo della competenza a decidere in ordine alla necessità del segreto.
Il segreto è strumento connaturale e insostituibile, laddove occorra, in un'attività come quella ordinata alla difesa e alla sicurezza del Paese e del suo ordine istituzionale.
La metodologia dell'aggressione ha come canone la illimitatezza (e dunque la spregiudicatezza) nell'impiego dei possibili mezzi: è chiaro perciò che la difesa contro l'aggressione non possa essere altrettanto valida ed efficace, ove sia, per contro, impacciata o impedita. Si tratta, per la difesa (e dunque per la sicurezza), di una condizione "necessitata" (una condizione che, anche in tempo di pace, è analoga, per non dire identica - fatte le debite proporzioni -, a quella della difesa in guerra; e, del resto, in entrambi i casi l'offesa e la difesa si muovono nella medesima area: non di rado anche in tempo di pace i servizi di sicurezza sono costretti ad adoperare mezzi non dissimili a quelli del tempo di guerra; sarebbe ipocrita fingere di ignorare queste cose; neppure in passato la Corte si è trincerata, in casi analoghi, dietro infingimenti: v. la sent. n. 114 del 1968, in materia di segreto di polizia).
Il segreto è, a sua volta, una esigenza posta a copertura della "necessità" di cui si è detto. Oltre che ad assicurare (per ragioni di validità ed efficienza) la non divulgazione degli apprestamenti e dei piani, esso serve anche a preservare e salvaguardare da interventi estranei la funzione di sicurezza nei casi in cui questa debba eccezionalmente affidarsi (per poter essere valida e non essere sopraffatta) al superamento della frontiera della legge comune.
Ciò che, sotto il profilo della liceità, è essenziale è che ogni necessitato superamento venga effettuato solo laddove si tratta di operare per il perseguimento (altrimenti impossibile) di finalità inerenti alla sicurezza dello Stato. In simili casi il segreto può, a sua volta, essere utilizzato unicamente per coprire quegli episodi in cui superamenti del genere si siano resi inevitabili ai fini della sicurezza.
È chiaro perciò - data l'estrema gravità della materia - che né i superamenti stessi sarebbero lecitamente effettuati, né la segretezza sarebbe legittimamente decretata, laddove degli uni e dell'altra venisse fatto per uso per perseguire obbiettivi e strategie di parte, tanto se la "parte" sia un partito, quanto se sia un organo dello Stato o un qualunque altro centro di potere. La sicurezza dello Stato coincide con la preservazione dello Stato-comunità come entità distinta dagli altri Stati nel consesso delle nazioni, e della Costituzione democratica nelle sue istituzioni. Non ha che vedere con le eventuali prevaricazioni, di singoli organi, di partiti e gruppi politici di corpi separati, di altre aggregazioni di interessi laddove si manifesti una prevaricazione, l'obiezione del segreto non può, dunque, non esser considerata un abuso; e il giudice ha il potere e il dovere di non arrestarsi davanti ad essa.

3. Non ha tuttavia, il giudice, la possibilità di farsi giudice anche della propria competenza, negando la "necessità" dell'opposto segreto. Il Potere giurisdizionale viene in tal caso a confronto con un altro Potere dello Stato, quello cui, secondo l'ordine costituzionale, tocca prevedere e legittimare il segreto. La soluzione del conflitto non potrà dunque essere (nonostante che rasenti "il merito") se non di spettanza della Corte costituzionale. E il giudice non potrà procedere oltre nella sua investigazione, se non dopo che la Corte abbia accertato e dichiarato illegittimo il ricorso alla segretezza. Un'analisi che l'organo di suprema garanzia costituzionale dovrà effettuare con prudenza estrema, dato il livello e l'importanza degli organi implicati.

4. Quanto al potere qualificato a disporre e legittimare il segreto, esattamente la Corte lo ha ravvisato nell'Esecutivo.
In un sistema costituzionale che (come il nostro) si basa, nei rapporti Parlamento-Governo, sui principi dello Stato parlamentare (artt. 94-95 Cost.), la difesa dello Stato e delle istituzioni contro ogni tipo di aggressione violenta sono compiti propri (essenziali e fondamentali) del Governo, il quale (e a giusta ragione lo ha sottolineato la Corte) ne risponde politicamente al Parlamento. Non può dunque non spettare anche al governo la "gestione" del segreto.
Non è neppure pensabile una "gestione" parlamentare di esso, e dunque una sua "cogestione" tra maggioranza e opposizione e comunque tra forze parlamentari governative ed extragovernative. Il ruolo istituzionale, in Parlamento, delle forze estranee al Governo - che è, o può in qualsiasi momento diventare di contrapposizione anche laddove possa contingentemente esservi somiglianza o addirittura concordia (cointeresse) negli orientamenti - fa apparire, già a prima vista, assurda e inaccettabile una simile ipotesi. La realizzazione della quale potrebbe produrre, al limite, specialmente nella materia in esame, effetti perversi. E difatti in nessun paese si è inverata.

5. Appropriata appare anche l'affermazione della Corte relativa al carattere discrezionale delle decisioni governative in ordine alla segretezza.
Tali scelte non possono non essere riservate (data la loro funzione) all'autorità che svolge l'attività "operativa" al servizio della quale il segreto si presenta come strumento necessario. Se il segreto serve a coprire (salvaguardare) le esigenze della sicurezza, è chiaro che esso non potrà essere disposto e legittimato se non da quegli stessi organi che, nell'esercizio del loro potere, hanno il compito di disporre le misure occorrenti ai fini della sicurezza.
Gli eventuali abusi non possono - come si è già avvertito - esser fatti valere se non in sede di giudizio per conflitto di attribuzioni.
È vero che in tal modo possono rimanere sguarnite di difesa alcune posizioni soggettive private (tra le altre, quelle relative al diritto di cronaca; ma non esse soltanto). Questo è tuttavia un inconveniente che si verifica in tutti i casi di segreto protetto dalla legge, in correlazione con quella graduatoria di valori costituzionali di cui si è più sopra parlato.

6. Emerge a questo punto il problema se la necessità del segreto debba esser decretata, in via definitiva, dal Consiglio dei Ministri o da un singolo componente del Governo e da quale. La Corte si è espressa nel senso che, in materia, "le decisioni definitive e vincolanti" non possono spettare se non a "chi è posto al vertice dell'organizzazione governativa", e precisamente al Presidente del Consiglio dei Ministri, poiché a questo l'art. 95 Cost. demanda il compito di "dirigere la politica generale del Governo", assumendone in proprio la responsabilità.
La materia è di quelle che avrebbero potuto (e forse dovuto) esser regolate dalla legge sulla Presidenza del Consiglio dei Ministri, invano attesa ormai da tre decenni. La pronuncia della Corte risulta comunque conforme a un disegno di legge presentato, per l'argomento specifico (prima dell'emanazione della sentenza in rassegna), dal Governo: la l. 24 ottobre 1977 n. 801, in cui quel disegno è sfociato, attribuisce ora, in ultima istanza, al Presidente del Consiglio dei Ministri la competenza in discussione. In mancanza e prima di una legge la soluzione adottata dalla Corte non può dirsi però appagante.
Nell'ordinamento vigente il Presidente del Consiglio non dispone infatti, come organo individuale, se non delle competenze specificatamente attribuitegli dalle singole leggi. Il compito di "mantenere l'indirizzo politico ed amministrativo, promovendo e coordinando l'attività dei Ministri" (conferitogli dall'art. 95 Cost.) non comporta, per sé solo, competenze particolari, sue proprie e riservate, in materie specifiche (specialmente se inerenti alle attribuzioni dei singoli Ministeri). Altrettanto vale per la competenza a "dirigere la politica generale del Governo", nella quale del resto la funzione di cui trattasi non può farsi rientrare, trattandosi di attività "operativa" (attuativa) e non di indirizzo.
Non sembra perciò possibile condividere, sul punto, le conclusioni della Corte. Tanto più che - come si è visto - esse risultano basate su un'argomentazione la quale appare muovere dal presupposto che il Presidente del Consiglio dei Ministri sia "posto al vertice dell'organizzazione governativa". Una posizione che invece può esser riconosciuta soltanto al Consiglio dei Ministri (e non anche ai fini provvedimentali in materie non rientranti tra quelle per le quali specifiche disposizione esigano una deliberazione del Consiglio nel procedimento di formazione dell'atto).
L'attività "operativa" relativa alla difesa e alla sicurezza (che di essa soltanto si trattava nel caso in discussione, e non della "suprema attività politica", nella quale un passo della sentenza pare voler ricomprendere tutta l'attività "attinente alla difesa esterna dello Stato") rientra nella competenza dei Ministri preposti al settore - rispettivamente Ministro per la difesa e Ministro per l'Interno (dotati purtroppo, in ordine ai servizi che si occupano della sicurezza interna, di attribuzioni non chiaramente delimitate dalla legislazione alla stregua della quale la Corte ha dovuto pronunciare). A quello di tali Ministri di volta in volta interessato, e non al Presidente del Consiglio (o al Consiglio), era da riconoscere dunque - se è vero che la segretezza non è che uno degli strumenti necessari dell'attività "operativa" di cui si è detto - la competenza a "stabilire in via definitiva quando il segreto sia necessario".

7. V'è un altro punto sul quale non ci pare di poter concordare con la sentenza in rassegna. Esso riguarda la portata della disposizione dell'ultimo comma dell'art. 352 c.p.p., in base alla quale l'autorità giudiziaria, quando non ritenesse fondata la dichiarazione di un soggetto qualificato, che avesse invocato, per non testimoniare, il segreto, non poteva (prima della pronuncia della Corte) procedere per falsa testimonianza, se non con l'autorizzazione del Ministro per la giustizia. La Corte ha dichiarato illegittima la disposizione - non è ben chiaro se (come la lettera del dispositivo lascerebbe intendere) con riferimento a tutte le fattispecie di segreto considerate dall'articolo (e in tal caso sarebbe andata ultra petita) o alla sola fattispecie del segreto politico-militare -, sul presupposto che essa conferirebbe "il potere di decidere definitivamente sulla conferma o meno del segreto di Stato al Ministro di grazia e giustizia e non al Presidente del Consiglio dei Ministri".
In effetti la disposizione né conferiva al Ministro per la giustizia un simile potere, né presupponeva tale conferimento. Quel Ministro disponeva (prima della pronuncia della Corte) soltanto del potere di autorizzazione a procedere (potere costantemente attribuito dal codice al Ministro per la giustizia - organo di raccordo tra Magistratura e Governo - tutte le volte che per procedere sia richiesta un'autorizzazione governativa). Per esercitare il potere previsto dall'art. 352 quel Ministro avrebbe dovuto previamente informarsi, circa la sussistenza o meno del segreto, presso il Ministro competente per materia: Ministro diverso da caso a caso, anche perché l'art. 352 riguarda - oltre ai casi di segreti politici e militari - anche tutti i casi di segreti d'ufficio.
Dunque la disposizione andava dichiarata illegittima non per la ragione indicata dalla Corte, bensì per un'altra: e cioè se ed in quanto si fosse ritenuto che essa consentiva (come in effetti sembra consentisse) al Ministro per la giustizia una discrezionalità in ordine all'autorizzazione a procedere, al di là delle risultanze degli accertamenti compiuti circa la sussistenza di una statuizione di segretezza da parte del Ministero competente per materia (va ricordato che in vari casi analoghi, a partire dalla sent. n. 94 del 1963, la Corte ha dichiarato l'incompatibilità con la Costituzione dell'istituto dell'autorizzazione a procedere); e anzi (a monte) perché (in contrasto con precetto dell'art. 101 Cost.) rimetteva a un Ministro e non al giudice di effettuare l'accertamento anzidetto (anche a questo proposito, non poche sono i precedenti della Corte, a partire dalla sent. n. 70 del 1961).


(*) L'articolo è stato tratto dalla Rivista "Giurisprudenza Costituzionale", 1977 parte I pag. 1200.
(1) La sentenza 24 maggio 1977 n. 86 della Corte cost., è pubblicata in questa Rivista nella parte III: normativa e giurisprudenza di interesse.
Ne riproduciamo la massima: "Sono costituzionalmente illegittimi gli artt. 342 e 352 c.p.p. nella parte in cui prevedono che il procuratore generale presso la Corte d'Appello informi il Ministro per la grazia e la giustizia e non il Presidente del Consiglio dei Ministri e nella parte in cui non prevedono che il Presidente del Consiglio dei Ministri debba fornire, entro un termine ragionevole, una risposta fondata sulle ragioni essenziali dell'eventuale conferma del segreto" (restando caducato il procedimento previsto dall'art. 352 comma 3, periodo secondo).
Il potere di decidere definitivamente sulla conferma o meno del segreto di Stato deve essere attribuito al Presidente del Consiglio dei Ministri, attesa la sua posizione costituzionale, e non al Ministro di grazia e giustizia. L'indicazione da parte dell'esecutivo delle ragioni essenziali che stanno a fondamento del segreto valgono ad agevolare il sindacato politico del Parlamento (evitando, attraverso i poteri riequilibratori del medesimo, l'insorgere di conflitti di attribuzione).

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